Il Reale Albergo dei Poveri di Napoli fu progettato dall’architetto Ferdinando Fuga, su incarico del re Carlo di Borbone nel 1751. Il complesso fu finanziato da numerosi contributi devoluti da famiglie nobili ed enti religiosi. Questa grande struttura avrebbe dovuto ospitare ottomila poveri, divisi rigorosamente per sesso ed età (uomini da una parte, donne con figli dall’altra). L’edificio, ancora esistente, si estende su una superficie di 103.000 metri quadri, ha una facciata di 354 metri disegnata da lesene[1], caratterizzata da 5 ordini di finestre, tre marcapiani con timpano centrale e da un maestoso ingresso costituito da una scalinata a doppia rampa. La struttura fu concepita come una vera e propria città, in cui gli ospiti avrebbero potuto dormire, mangiare, ricevere un’educazione scolastica, apprendere un mestiere e soddisfare i propri bisogni spirituali partecipando alla messa.
L’edificio, a pianta rettangolare di seicento metri per centocinquanta, si sarebbe dovuto articolare in cinque grandi corti, con una chiesa a quattro navate disposte a forma di X nella corte centrale. L’interno fu pensato per ospitare refettori e dormitori, officine e laboratori, porticati, abitazioni per il personale: il tutto in un impianto che impedisse ogni possibile promiscuità tra le quattro categorie di ospiti. Le enormi spese che la costruzione dell’edificio richiedeva non hanno mai permesso di completarlo. Vennero quindi modificate le piante e i prospetti, sacrificati i porticati a favore di 4 distinte cappelle, ognuna dedicata alle diverse classi di ospiti della struttura . Nonostante la riduzione delle volumetrie, l’edificio tuttora si mostra nella sua imponenza. L’albergo ospitò uomini e donne poveri, bambini orfani che all’interno seguivano progetti di ‘integrazione sociale’ volti all’educazione al lavoro che in alcuni casi diventarono vere e proprie filiere produttive anche esterne al regno. Con il tempo le funzioni sociali vennero ampliate e l’Albergo dei Poveri iniziò ad ospitare l’istituto di ricreazione per i sordomuti, il Tribunale dei minori, i Reclusori e Serragli (case di correzione minorile). Nei suoi 250 anni di storia l’edificio ha cambiato più volte gestione organizzativa ed è stato più volte modificato, parcellizzato, in parte demolito.
Svuotato dai poveri che lo hanno per anni abitato, è stato spesso anche occupato abusivamente da nuovi poveri italiani, stranieri, famiglie intere. Dagli anni novanta del secolo scorso si afferma la consapevolezza del valore monumentale dell’edificio con vari tentativi di recupero ma dal 1981 l’edificio viene di fatto abbandonato e tale rimane a tutt’oggi. L’amministrazione comunale ha recentemente deciso di trasformare l’enorme struttura in una città per i giovani. L’Albergo dei poveri, in Italia, ha segnato in modo molto forte l’epoca dei Grandi Contenitori del disagio. L’impresa mastodontica di costruire una città ‘fortino’ ove contenervi tutti i poveri della città era chiaramente volta all’intenzione di determinare un controllo totale da parte della classe borghese sulle fasce più indigenti del proletariato urbano. Il soggetto, una volta assimilato in una struttura di quel tipo, non ne sarebbe più uscito se non dopo molto tempo, rieducato e con una identità nuova.
L’attenzione progettuale dell’architetto, nel diversificare i percorsi in modo tale che le diverse categorie di ospiti non si incontrassero mai o che uomini donne e bambini fossero divisi; la sua ricerca compositiva per soddisfare le richieste dei nobili finanziatori, di rendere l’edificio sfarzoso e imponente per ragioni legate al prestigio della committenza, derivano da un ragionamento sulla funzionalità degli spazi, strettamente collegato al tipo di servizio che l’Albergo dei Poveri avrebbe offerto alle persone. Il progetto architettonico era di fatto una diretta conseguenza del progetto del servizio.
I dormitori contemporanei dell’oggi in Italia, nonostante siano in genere di dimensioni molto più ridotte, non si discostano molto da quella logica di contenimento e controllo del disagio estremo. Il concetto stesso di Albergo per i poveri ha continuato a sopravvivere per un certo periodo storico. Fino agli anni novanta in Italia, come in altre città europee, sono esistiti gli Ostelli ora quasi totalmente scomparsi, ossia stanzoni pensati per uomini e donne separati, con i letti a castello in condivisione e i bagni comuni dove si poteva pernottare a tariffe molto ridotte. Erano luoghi utilizzati da giovani viaggiatori, lavoratori temporanei ma anche da homeless. Poi vi erano come vi sono tutt’ora, strutture di accoglienza ad hoc, pensate per rispondere a delle specificità di disagio: strutture per persone con problemi psichici, persone affette da problematiche legate alla dipendenza da sostanze stupefacenti o alcol, o a difficili condizioni di contesto familiare e sociale. Figure che spesso coincidevano con l’immaginario del clochard che intraprendeva la scelta di abbandonarsi al disinserimento graduale dalla società per vivere in strada o temporaneamente nelle strutture predisposte.
Con il tempo, l’arrivo dei nuovi flussi migratori, con gli sbalzi dovuti alla crisi economica e con l’aumento della precarietà lavorativa, è cambiata nella società la figura classica rappresentativa dell’homelessness rendendola più temporanea e flessibile. Si pensi ai lavoratori improvvisamente licenziati o senza delle entrate fisse in quanto magari liberi professionisti: qusti si trovano obbligati ad usare strutture di accoglienza o sono ospiti di amici surfando tra un divano e l’altro, ma di fatto non potendo pagare il canone mensile di affitto, sono senza casa. Sono figure che non si abbandonano ad un percorso di esclusione sociale perché spesso accade che nel momento in cui queste figure ritrovano il lavoro, sono in grado di riprendere la vita regolare precedente. Questo conferma il cambiamento dell’utenza e la mancanza di una risposta abitativa adeguata che sia in grado di soddisfare la domanda oramai sempre più sfaccettata. Molte organizzazioni, infatti, si sono trovate a dover accogliere figure con bisogni differenti. A differenza dell’Albergo dei Poveri di Napoli, dove l’edificio era pensato per ospitare una serie di attività assistenziali per i suoi abitanti, i dormitori di oggi difficilmente offrono servizi diversi dal semplice ‘mangiare lavarsi dormire’. Le reti dei servizi sono invece distribuite nella città e fanno a capo ad un fitto sistema di centri d’ascolto, indirizzamento lavorativo, centri d’aiuto, disposti in luoghi strategici della città, e che guidano l’homeless ad una fase successiva, che è quella della seconda accoglienza, dove invece è fondamentale impegnarsi nel mantenere un lavoro per poter avere una stanza dove dormire.
La struttura del dormitorio classico e dei luoghi della seconda accoglienza sono a livello spaziale molto differenti. I dormitori sono tendenzialmente strutture molto grandi, atti ad ospitare uomini e donne separatamente; sono infatti inesistenti i dormitori per famiglie, che vengono piuttosto sostituiti da vere e proprie case -famiglia. Hanno quasi tutti un ambulatorio medico, una mensa per la prima colazione, camere comuni e mai singole, docce e bagni. Sono dimensionati in base a norme imposte dal regolamento di igiene .
Quello di Milano, ad esempio, per i Dormitori – asili notturni e strutture socio assistenziali di ospitalità collettiva, impone che «Trattandosi di esercizi di ospitalità a carattere temporaneo di tipo collettivo, con attrezzature essenziali, i dormitori pubblici o asili notturni, sempre separatamente per i due sessi, devono avere almeno: una cubatura totale da assicurare minimo mc 24 per posto letto; una disponibilità di servizi igienici collettivi (…) che assicurino almeno un bagno completo (lavabo + vaso + piatto doccia) per ogni 10 letti, oltre 1 lavabo ogni 5 letti; un esercizio di disinfezione e disinfestazione degli individui, della biancheria e dei letti con locali per la bonifica individuale». La permanenza all’interno di queste strutture non supera il mese. Esse rimangono aperte solo nelle ore notturne, offrono la prima colazione e poi chiudono alle 8 del mattino per poi riaprire alla sera. Molte di queste sono attive solo in inverno per l’emergenza freddo. L’homeless, quindi, per il resto della giornata, o rimane in strada oppure si affida alla rete dei servizi distribuiti nella città, attraversandola e utilizzando mense o centri d’ascolto. Oppure, come succede sempre più spesso, qualcuno va al lavoro, dove la paga è ancora troppo bassa per permettersi una casa.Non è facile accedere ad un dormitorio, a differenza di come può accadere per gli ostelli. L’accesso non è permesso a tutti, molto spesso è necessario essere accreditati da un’altra struttura, è necessario avere il permesso di soggiorno, ed è vietato introdurvi all’interno alcolici o medicinali, se non autorizzati, e a volte le strutture sono a pagamento. Molto spesso il territorio non è coperto a sufficienza per rispondere in modo esaustivo alla domanda di accoglienza emergenziale, di conseguenza esiste una serie di servizi mobili su strada che cercano di dare assistenza agli abitanti della strada, distribuendo cibo, té caldo, coperte, vestiti.
Le case della seconda accoglienza sono strutture differenti rispetto ai dormitori, innanzitutto sono più contenute, ospitano meno persone, sono spesso più confortevoli e possono essere senz’altro chiamate ‘case’. Alla seconda accoglienza si accede una volta che si è deciso o si è convinti di intraprendere un percorso di reinserimento sociale e quindi si cerca di mantenere un lavoro, si seguono eventualmente programmi di disintossicazione, e si risponde ad una serie di responsabilità rispetto alla convivenza con gli altri. Anche in questo caso vi è separazione tra uomini e donne.
Spesso queste strutture sono case di grandi dimensioni, con più stanze da due letti, i bagni con le docce, la zona lavatrici e la cucina con sala da pranzo in comune. Anche i centri di seconda accoglienza non sono aperti di giorno e il periodo di permanenza può durare dai 6 mesi a due anni, ma questo dipende dal percorso personale di ogni singolo individuo. Gli spazi delle case di seconda accoglienza sono sempre condivisi in quanto vi è un’induzione alla convivenza tra soggetti molto spesso differenti, anche in questo caso vi sono regole da rispettare rispetto ai turni delle pulizie, ai turni lavatrice, lavaggio piatti . Gli operatori hanno funzione di coordinamento e lavorano in rete con le altre strutture di appoggio; per queste figure sono sempre previsti un locale studio con un archivio e una o più stanze da letto per svolgere il turno di notte.
Il percorso che segue all’abitare in una casa di seconda accoglienza prevede che i suoi abitanti si spostino in un alloggio vero e proprio, magari a canone sociale, dove, pur sempre seguiti dall’assistenza, si possa tornare ad una ‘normalità abitativa’, chiamata terza accoglienza.
Un percorso molto lungo è quello del passaggio dalla strada alla casa, più volte oggetto di critica nel dibattito contemporaneo, e molto diverso, ad esempio, rispetto a pratiche di reinserimento come l’Housing First, sperimentato da Sam Tsemberis[2] nei primi anni novanta a New York, in cui si partiva dal presupposto che l’alloggio debba essere un diritto fondamentale e non debba essere negato a nessuno, anche nel caso di un homeless dipendente da alcol o sostanze stupefacenti. Di conseguenza sono stati intrapresi dei percorsi con gli homeless stessi che erano disposti ad entrare in terapia in cambio dell’alloggio. Il modello prevedeva dei servizi di gestione ai locatari a domicilio, promuovendo l’autosufficienza degli abitanti. In questo caso, il diritto di acquisizione di uno spazio, implica un impegno al mantenimento della propria autonomia abitativa e sociale attraverso una graduale disponibilità al cambiamento del proprio stile di vita. L’accompagnamento non avviene in questo caso attraverso il passaggio di più gradi dell’accoglienza (prima seconda e terza) ma è più drastico e intensivo, e avviene in un luogo che è sempre lo stesso ma che è da subito una casa.
La descrizione dei luoghi sopra citati induce ad una riflessione legata al modo in cui questi spazi possono essere progettati, ossia quali attenzioni l’architettura o l’urbanistica possono porre per migliorare l’accoglienza, in modo tale da introdurre responsabilità fino ad ora sostanzialmente assenti in una disciplina che poco ha lavorato su questi temi. L’osservazione degli spazi legati all’offerta non può essere svincolata dall’osservazione degli spazi e delle soluzioni abitative, invece più spontanee, che gli homeless utilizzano.
LE SCATOLE
Le strade del centro città, che quotidianamente capita di attraversare, hanno una peculiarità interessante. Di giorno sono utilizzate da una popolazione di lavoratori, turisti, pendolari, studenti in movimento. Di notte, quando tutti tornano a casa, nei propri studentati, in albergo, le stesse strade si svuotano restando deserte per un po’ per poi ripopolarsi piano piano diventando rifugio dei senza casa. Spuntano cartoni, plastiche, coperte, sacchi a pelo, spesso nascosti negli anfratti delle colonne o nei sottoscala dalla sera prima, e si allestisce un accampamento di posti letto. La città diventa un centro di accoglienza informale e temporaneo. Qualche anno fa, passando davanti alla libreria Hoepli a Milano, notai dietro alla colonna un uomo sulla sessantina con un cappotto di cammello e una sciarpa in tinta, delle scarpe eleganti, anche se un po’ consunte, e un cappello Borsalino in testa. Si aggirava dietro alle colonne verso le dieci in una sera di dicembre. Era un uomo molto elegante che aveva probabilmente perso il lavoro prestigioso che conduceva prima, non ricordo quale. Mi raccontarono che dopo aver perso il lavoro, aveva perso i legami familiari, come spesso succede a coloro che poi diventano homeless. Non aveva di sicuro perso l’eleganza: questo mi colpì particolarmente. Dopo poco ripassai di lì, erano le ventitrè, l’uomo con il cappotto di cammello non c’era più ma mi accorsi di una cosa che prima non avevo notato, forse perché non c’era ancora. Appoggiata ad una delle colonne dei portici, vi era una scatola di cartone piegata in modo particolare e con una forma insolita. Aveva pianta quadrata di circa un metro per un metro, ed in sezione si sviluppava a ‘L’ misurando circa un metro e mezzo in altezza e un metro in larghezza. Il colore del cartone era lo stesso del cappotto color cammello dell’uomo che avevo visto poco prima. Capii subito che quella era la sua casa e che lui vi dormiva all’interno: da seduto, con la schiena appoggiata sul lato più alto posizionato verso la colonna. Era una struttura formata da più scatole, un oggetto attentamente pensato e costruito, probabilmente pieghevole e riutilizzabile, di una semplicità ed eleganza straordinarie. Quell’uomo possedeva in qualche modo una casa che si era attentamente costruito e sistemava in uno spazio pubblico, di passaggio, a quell’ora inutilizzato. Mi veniva da pensare che il luogo dove dormiva fosse sempre lo stesso, perché la larghezza della scatola si adattava alla larghezza della colonna che faceva da appoggio strutturale. Non aveva altro probabilmente, oltre che una casa di cartone, un cappotto un cappello dei pantaloni una maglia una camicia delle mutande e dei calzini. Questo ciò che ricopriva il suo corpo.
LE MACCHINE
Le auto abbandonate e abitate di notte sono uno dei dispositivi dell’accoglienza informale più frequenti nelle città. Sono il più delle volte abbandonate perché è scaduta l’assicurazione, o il bollo, o perché sostituite da macchine più nuove o perché il proprietario ha cambiato città, oppure ancora sono state rubate e abbandonate. Si trovano nei parcheggi delle stazioni ferroviarie o lungo le vie principali, in posizione più marginale rispetto al centro vivo della città. I depositi dei vigili sono spesso già occupati da altre automobili che attendono di essere rottamate; di conseguenza le auto abbandonate rimangono numerose in giro per la città. Non sono facili da notare, perché non si distinguono troppo dalle altre auto circolanti e sono per questo un ottimo nascondiglio. Ci si accorge che le macchine hanno segni di vita all’interno da lontano attraverso l’osservazione di piccoli particolari quasi impercettibili: le serrature delle porte leggermente scassate, le portiere leggermente aperte, i finestrini rotti spesso coperti da teli o da plastiche fissate con lo scotch, spesso le gomme sono sgonfie o le ruote inesistenti. Da vicino invece si svelano: all’interno spesso manca il volante e gli oggetti che si possono osservare sparsi nell’abitacolo, sono segni evidenti di momenti passati all’interno durante la notte. A volte si vedono solo coperte, oppure anche bottiglie, pacchetti di sigarette, preservativi, cartoni vuoti di McDonald’s; può succedere di trovare libri, oppure giornali di annunci. Gli abitanti delle macchine abbandonate sono di diverse tipologie: possono essere usate dagli homeless cronici, ma anche da giovani lavoratori immigrati che sono da poco giunti in Italia e che ancora non hanno consolidato una rete amicale che li supporti e li inserisca in quel network informale che spesso gli fa trovare casa, magari in condivisione con altri connazionali. Spesso le automobili abbandonate sono controllate, chi se ne aggiudica una la deve tenere stretta, a volte basta pagare un affitto di circa 10 euro a notte ad alcune organizzazioni che le gestiscono. Le macchine possono diventare anche un luogo di lavoro, come nel caso delle prostitute che le usano per ricevere i propri clienti. In alcuni casi vi sono comunità di immigrati provenienti dai paesi dell’est che abitano nei veicoli di loro proprietà, e con cui sono giunti in Italia, li parcheggiano l’uno vicino all’altro, sono lavoratori con figli piccoli che accompagnano a turno i genitori al lavoro durante la giornata, perché troppo piccoli per andare a scuola. In altri casi ancora può succedere che la propria macchina diventi casa perché sono poche le strutture che ospitano i parenti dei degenti ospedalieri che, all’ennesimo viaggio della speranza, non hanno più risorse economiche per abitare nei residence. Oppure ancora, come sta succedendo negli Stati Uniti dopo il crack economico e l’aumento del tasso di interesse sui mutui, le case che le famiglie si stavano comprando sono andate confiscate, inducendo comunità intere di ex appartenenti alla middle class ad abitare nei parcheggi con i loro SUV e gli oggetti personali essenziali.[3] L’abitare nelle macchine è un abitare molto spesso stanziale e non nomade se non in alcuni rari casi. E spesso è un abitare interrotto dagli incendi appiccati dagli abitanti del quartiere o dalle rimozioni dei vigili. In altri casi, è un abitare interrotto dagli inquilini stessi che magari trovano una vera casa. Per qualcuno la macchina invece è una casa per tempi lunghi, ci sono homeless che vivono oramai stabilmente in furgoni oramai non funzionanti ma arredati a seconda delle necessità: banco bar, radio, materassi, piccoli armadi, tutto a portata di mano. E infine c’è anche chi dentro alla macchina fa lo scrittore e si inventa 100 modi per dormire tra i libri accumulati. Nel caso dei veicoli abitati, l’ auto-organizzazione viene quindi definita da uno spazio reale ed imposto che diventa funzionale perché coperto e riparato, ma di dimensioni quasi standard, dove l’intervento di adattamento da parte dell’abitante è in un certo qual modo limitato. Si tratta infatti di occupazione di un oggetto, non di progettazione e costruzione dello stesso. Inoltre, le macchine non si possono spostare, come nel caso delle case-scatola; sono oggetti immobili che possono essere occupati più volte da persone diverse che invece si spostano da una macchina all’altra.
GLI INSEDIAMENTI
L’ ’abitare ‘insieme’ per gli homeless non è una pratica consueta, l’homeless in generale tende ad una totale indipendenza e solitudine, esistono tuttavia delle forme di coabitazione anche in strada che a volte si consolidano in modo più spontaneo e casuale e a volte in modo più strutturato. Spesso accade, ad esempio, che più persone sostino frequentemente nella stessa zona della città e di conseguenza utilizzino le stesse strutture di assistenza e aiuto. Questo li induce a costruire dei rapporti umani e amicali tra di loro e a riconoscere insieme dei luoghi che sempre più spesso usano per dormire: i vagoni delle stazioni, i sotto-ponti ferroviari o stradali, i cantieri interrotti. Dopo un certo periodo oltre ai minimi effetti personali, corrispondenti a pochi vestiti, le coperte, qualche oggetto, iniziano ad attrezzarsi con brande, piccoli fornelli, bidoni in latta bucati dove all’interno accendono il fuoco per scaldarsi. Spesso le aree possono essere recintante con delle paratie di metallo, magari ricuperate dai cantieri. In altri casi, ma molto rari, possono sorgere delle piccole baracche che a differenza delle immagini dei grandi insediamenti che ci possiamo ricordare in Miracolo a Milano, sono invece più piccole e meno stabili. Costruite con i materiali di recupero che si trovano per strada, come il legno, qualche vecchio mobile, del nylon. Il controllo delle municipalità è sempre più fitto, soprattutto negli ultimi anni, insediamenti di questo tipo si rendono maggiormente visibili, nonostante non siano mai numerosi i loro abitanti. Possono essere una decina di persone o forse meno. Spesso sono tutti connazionali, e possono essere misti uomini e donne, convivenza che invece nei dormitori è proibita . La solidarietà che si crea tra le persone che vivono insieme è molto motivante, lo dimostra il caso dell’associazione culturale la Linea Gialla Onlus, costituita a Milano da homeless e operatori. L’associazione tiene e cura un blog di strada, dove annota quotidianamente le attività culturali che gli homeless fanno o sognano di fare: pittura, poesia, musica. Interessante, parlando con loro, è scoprire che stanno cercando i finanziamenti per costruire una sorta di casa di accoglienza che permetta loro di poter viaggiare e dormire in strada quando lo ritengono, ma che presti dei servizi, che possieda dei letti quando servono, un deposito bagagli, dei bagni dove potersi lavare, degli spazi per esporre le loro produzioni culturali. In casi di homelessness più temporanea e meno radicata, avvengono logiche di convivenza differenti. Vi sono casi di immobili occupati, ove convivono più tipologie di senza casa. Spesso sono immobili dimessi già occupati da famiglie rom, dove si insediano con il tempo altri immigrati single di provenienza geografica diversa. In quel caso la solidarietà può avvenire tra gruppi simili che si radicano maggiormente nei luoghi modificandone a loro vantaggio gli spazi, creando delle vere e proprie cucine, camere addobbate con poster e manifesti, organizzando i vecchi bagni recuperando l’acqua piovana raccolta con le canne da giardino. Negli stessi edifici abbandonati, i single, si adattano invece in modo più improvvisato, lasciando poche tracce quando poi scompaiono, come nel caso delle automobili abitate di notte. Dormono a terra, con dei sacchi a pelo, fanno i fuochi direttamente sui pavimenti di cemento se gli spazi sono grandi e lo permettono. Non usano nessun sistema igienico e spesso utilizzano il pavimento stesso per espletare le loro funzioni fisiologiche. Questo ancora più sottolinea un’intenzione di temporaneità nella permanenza di quello spazio e di conseguenza, nessuna cura nel mantenerlo. Gli immobili abbandonati possono essere vecchie case, cascine, ex fabbriche, magazzini. Quando si può anche nel centro città e quando l’amministrazione non lo permette con politiche di sgombero attivo, si possono occupare gli stessi luoghi nelle periferie o nelle campagne. In altri casi, la condivisione della stessa area, intesa come piazza, strada o aiuola, può determinare una progettualità sorprendente da parte degli homeless stessi. In alcuni casi aiutati dalle associazioni, in altri spontaneamente, acquistano delle tende Ferrino da campeggio. A Parigi lungo la Senna ogni inverno compaiono numerose tende grazie ad un progetto coordinato dalle associazioni Medecins du monde e Les enfants de Don Quichotte . Anche a Milano accade, vicino alla Triennale: un capo scelto si occupa di raccogliere i soldi avuti con dei piccoli sussidi o ricavati dalle elemosine, spesso esiste una lista dove le persone si mettono in graduatoria. A detta di molti è uno dei modi migliori di abitare in strada e spesso vi sono ospiti che dalle macchine, dove fa freddo e dormono solitamente, fanno visita a degli amici.
LO SPAZIO LIBERO SENZA ACCESSORI
Qualche tempo fa, mi soffermai davanti alla vetrina di un negozio di design un po’decò sotto una galleria del centro di Milano. Osservai rapita per un po’ quella vetrina pullulante di abajour di cristallo accese su divani zebrati di altissimo valore. Ad un certo punto mi accorsi che esattamente sul lato sinistro della stessa ma all’esterno, c’erano disposti con ordine altri oggetti: un letto, una piccola lampada da notte, un comodino con delle foto attentamente posizionate, un cesto di vimini con le zampe, un tappeto rosso e una piccola sedia sopra la quale erano poggiate delle riviste. Pensai per prima cosa che il negozio stesse eliminando degli oggetti, che osservati meglio, non erano assolutamente dello stesso valore di quelli in vendita. Mi avvicinai e da dietro il comodino, comparse una signora, molto truccata, con lo smalto sulle unghie e di circa 50 anni. Mi avvicinai e iniziammo a parlare. Vieva lì da qualche mese perché era scappata di casa, aveva passato una vita seduta davanti ad una cassa del supermercato Esselunga e ora quella era la sua casa. Ogni mattina si alzava, chiedeva al bar in prestito il secchio e l’acqua e accuratamente puliva con lo straccio il pavimento su cui camminava. Da quel giorno, osservai con molta più attenzione i casi di homelessness opposta, ove invece l’unico elemento che caratterizza lo spazio in cui si decide di sostare nella notte o durante il giorno, è il puro e semplice contenitore che si chiama città. Molti sono gli individui che si appoggiano alle grate sopra il metrò per sentire più caldo, oppure negli ingressi delle banche da cui esce l’aria calda, sulle panchine dei parchi, delle piazze, sull’erba dei parchi, addirittura tra i tronchi degli alberi dove per caso è stato abbandonato un grande materasso, lì collocato per tutt’altri motivi. A volte senza i cartoni, solo con una coperta recuperata dai volontari dei servizi mobili e che probabilmente verrà persa nella notte seguente. Sono soggetti mobili, senza il senso di possesso, senza oggetti personali: loro, i vestiti che hanno addosso e la città. Spesso sono casi disperati che non trovano posto al dormitorio e sono costretti ad adattarsi per un breve tempo. Molti di loro possono essere immigrati che hanno fallito il loro progetto migratorio e si trovano soli in un altro paese e senza nessun radicamento o affetto. Quasi una rinuncia effettiva e dichiarata alla vita materiale. Ma in realtà hanno una capacità di adattamento molto superiore ad altri. Spesso si nascondono magari all’interno dei cartelloni pubblicitari a tre facciate e a volte invece si mostrano, sono visibili. Spesso le ambulanze si fermano perché non li vedono dare alcun segno di vita quando invece loro stanno semplicemente dormendo.
SPUNTI INTERESSANTI
Alla decima mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia del 2006, Patrick Bouchain, architetto e scenografo parigino, fece da curatore per il padiglione francese ai giardini. Più che un allestimento o un esposizione, venne messo in scena un vero e proprio esperimento di coabitazione. Il progetto si chiamava Méta-cité ed era prodotto da Exzyt, un collettivo francese di architetti, carpentieri, designers e dj. Il padiglione fu trasformato in una casa abitata giorno e notte da circa 24 membri stabili di Exzyt e predisposta per circa una trentina di ospiti. L’allestimento, temporaneo, permase per tutta la durata dei tre mesi della biennale. Gli abitanti, al suo interno si alternarono organizzando performance, incontri e momenti di dibattito. Il temi della biennale di quell’anno: città, architettura e società. La scelta di erigere un cantiere e di chiamarlo Méta-cité era una metafora di quello che oggi è la meta-città delle reti, dei network connessa al mondo intero ma sempre più mancante di fisicità. Per restare umani, secondo Exzyt, era importante provare a pensare di abitare la città in modo comunitario, condividendo fisicamente una casa.
Una struttura molto semplice realizzata in totale economia e composta di pallets e di tubi innocenti, disegnava uno spazio ‘contenitore’ di servizi basilari alla residenza: una cucina, dei letti raggiungibili con delle scale, uno spazio comune e all’ultimo piano, i servizi comprensivi di sauna aperta al pubblico. C’era l’occorrente per dormire lavarsi mangiare .
Spazi come questo, assomigliano ad alcuni dormitori a New York. Sono dormitori realizzati a basso costo e predisposti per essere utilizzati nello stesso modo in cui si utilizza la strada. Sono stanze arredate con strutture di tubi innocenti e pallets di legno, con brandine, servizi igienici e guardaroba. Vi sono degli operatori che presidiano i locali, ma non vi sono altri controlli particolari, l’homeless può entrare con i propri averi e anche gli alcolici, sistemarsi come si sistemerebbe in strada, la differenza è che gli ambienti sono al chiuso e riscaldati.
Luoghi che per come sono progettati ricordano provocazioni come quella di Atelier Van Lieshout[4] , per il Il Disciplinator ad esempio (Collezione MAK di Vienna, 2003) pensato per i carcerati e che si basa su una precisione matematica della sua progettazione di strutture e funzioni. Sulla base di un multiplo di quattro, gli elementi destinati ad essere utilizzati per 24 ore al giorno da 72 detenuti. Ci sono 24 letti a castello che possono essere occupati per tre volte al giorno; 24 posti per mangiare con 24 tazze e 24 piatti, 36 posti di lavoro (ridurre il legno in segatura) e 36 file con cui i detenuti hanno per lavorare e quattro servizi igienici , quattro docce, otto spazzolini (così due detenuti possono lavarsi i denti contemporaneamente). Il Disciplinator produce poco altro al di là del passare del tempo e della segatura. In questo incubo, il totale delle funzionalità soddisfa la totale inutilità. Progettato e riempito con la stessa precisione come lo spazio, il tempo diventa indistinguibile da un progetto architettonico.
L’architetto o l’urbanista, non può avere la pretesa di risolvere il problema dell’homelessness attraverso il ri-disegno degli spazi e non può arrogarsi il diritto di entrare in dibattiti legati ai percorsi di inclusione sociale o invadere altre discipline più competenti. Sicuramente però ha le doti per interrogarsi in modo nuovo e interessante sul ragionamento legato alla spazialità per l’homelessness e leggendo, analizzando casi contingenti e reali, è possibile provare a disegnare e sperimentare delle soluzioni abitative che migliorino l’abitare di chi ne usufruisce. La riflessione sul miglioramento qualitativo può essere pensata sia in relazione allo spazio urbano esteso, sia a livello micro spaziale che più soggettivo, (dormitorio, provvisorio o stabile che sia, alloggio, allestimento informale in strada). Per un’esito concreto e realizzabile è necessaria una forte collaboratività con le discipline che sono più specificatamente legate all’analisi del fenomeno dal punto di vista psicologico, sociologico, e di lavoro pratico effettivo sul territorio. E’ fondamentale un confronto che determini sia uno scambio totale di competenze, che una conoscenza approfondita del tema a partire dalla ricerca dal basso, iniziando ad interrogare gli homeless su quali sono o possono essere i loro bisogni immediati per abitare possbilmente meglio.
UN’IDEA DI PROGETTO PER MILANO
‘La città debole[5], homeless e spazio urbano’, è un lavoro che ho iniziato a Milano nel 2004. Uno studio nato dalla curiosità di osservare come la città si attrezza per far fronte alla realtà dei senza dimora, rispetto ad una lettura del fenomeno dal punto di vista di un linguaggio architettonico e di lettura del territorio. Milano, considerati i dati statistici, mostrava di avere una situazione più allarmante rispetto a Roma o ad altre città italiane ma anche europee. L’homelessness iniziava a declinarsi all’interno di scenari differenti. In quel periodo stava aumentando la popolazione straniera appena giunta in Italia e senza un lavoro, si iniziavano a pagare le conseguenze della precarietà economica dei giovani lavoratori sempre meno regolarizzati con contratti, ma anche il prezzo del mattone iniziava a salire e diventava sempre più difficile per tutti, avere una casa in affitto. In ogni caso Milano rappresenta tutt’oggi la città dell’economia, una “faccia” del consumismo globale e questo, forse in parte, poteva spiegarmi il motivo di un’immigrazione così cospicua; poteva spiegarmi il costo sempre più alto delle case, ma non mi spiegava chiaramente perché proprio gli homeless fossero sempre in aumento. Perché si parla di homeless in emergenza freddo e ogni anno aumentano i decessi in strada? Come funziona la rete dell’assistenza? Perché gli homeless vivono la città nei suoi anfratti più intimi, più vivi, più pulsanti? Mi ha sempre incuriosito questa forte stratificazione su strada, in relazione, appunto, all’offerta deficitaria che Milano proponeva e propone, ma se Milano invece si aprisse inglobando con una forma di accettazione e di micro-trasformazione spaziale, una realtà che ormai le appartiene? Gli homeless, potrebbero sembrare di meno? Iniziai così a visitare tutte le strutture di servizio per senza dimora, intervistai gli operatori, mi organizzai per fare delle esplorazioni notturne accompagnando i servizi mobili di assistenza su strada, iniziai a passare del tempo nei centri di accoglienza, dormitori, mense, visitai le associazioni laiche, cattoliche, istituzionali. Mi resi conto subito che il sistema della rete sociale è molto fitto, spesso senza finanziamenti sufficienti per offrire un servizio ancora migliore, carente di spazi da utilizzare e volontari. Il tempo passato con coloro che lavoravano all’interno delle strutture e dei progetti che stavo imparando a conoscere, pian piano mi permetteva di relazionarmi maggiormente con i diretti protagonisti: gli homeless. Durante questa parte attiva di lavoro relazionale, diventava indispensabile mappare (anche graficamente) tutti i servizi che Milano offriva: Centri d’ascolto, Ambulatori medici, Mense, Docce pubbliche, Prima accoglienza, Seconda accoglienza, Terza accoglienza. Le mappe hanno permesso di raccontare differenti aspetti della situazione complessiva in merito alla domanda e all’offerta, definendo in modo più chiaro chi usufruisce dei servizi, attraverso quali regole, quali modalità, in contrapposizione a porzioni di territorio che rimangono invece scoperte.
La mappatura evidenzia inoltre un sistema di reti attive o semplicemente collaboranti: alcune associazioni gestiscono servizi differenti e li distribuiscono sul territorio, altre associazioni collaborano direttamente con altre. I centri d’ascolto, ad esempio, più fitti nelle zone del centro città, hanno funzione di link ad altre strutture, oltre che funzione informativa. Una rete questa che si sovrappone invece alla rete informale dei senza dimora che sanno perfettamente da soli dove mangiare e dormire lavarsi.
Nella stratigrafia del network formale e informale della città dell’homelessness, si sovrappongono in fine le reti dei servizi mobili, Durante la notte infatti una porzione di Milano viene percorsa da sei unità mobili che spesso intrecciano i loro tragitti prestando servizio a chi vive in strada. La mappa dei loro spostamenti e delle loro soste evidenzia quali sono le aree della città che nelle ore notturne vengono usate maggiormente per dormire.
Una volta osservati i luoghi scelti dai senza tetto, si disegna un curioso sistema sulla mappa di Milano: Le stazioni ferroviarie disposte a contorno del cerchio delle circonvallazioni interna ed esterna, i caselli daziari disposti nella circonvallazione interna e la linea circolare esterna della 90.91: una filovia che presta servizio tutta la notte fermandosi solo per 3 ore e che spesso viene utilizzata dai senza tetto per dormire durante il tour notturno. Osservando questa mappa accesa di azioni informali e formali di servizio, viene naturale pensare che il piccolo intervento sulla composizione della città determina un nuovo modo di viverla per com’è, non va rifatta quindi ma corretta. Non è certo possibile ridisegnare o riprogettare questi spazi in funzione dell’homelessness, però è possibile pensare ad un sistema di allestimento temporaneo degli stessi in funzione di un’assistenza su strada gestito e prodotto dal sistema di network delle reti attive e collaboranti assistenziali tenendo conto della rete informale degli homeless. In funzione di una assistenza a livello “zero” aperta e disponibile a chiunque voglia usufruirne. Stupirebbe infatti non fossero solo gli homeless a servirsene ma magari anche una popolazione più temporanea rappresentata dai giovani in vacanza, immigrati in cerca di lavoro che per i primi giorni di permanenza nella città non trovano ancora un alloggio, oppure ancora chi, arrivando per eventi temporanei, come il Salone del mobile, le partite di calcio a San Siro, si accontenta di uno spazio per una notte a pochi euro dove installarsi con un sacco a pelo.
Ne deriva un primo elemento progettabile: una Rete ipotetica determinata da luoghi-preesistenze e azioni. La risposta può riguardare la costruzione di alcuni scenari possibili che prendono in considerazione delle azioni già esistenti sul territorio che possono essere migliorate, modificate o che possono essere azioni da inventare per una micro-trasformazione della città e dei suoi luoghi. I luoghi-preesistenze, sono spazi che hanno perso la loro funzione originale, immobili, nel tempo abbandonati e riconvertiti. I vecchi bagni pubblici, i caselli daziari, i depositi non usufruiti, i magazzini delle stazioni, i negozi chiusi nei metrò, gli immensi spazi dei passanti ferroviari chiusi la notte: sono luoghi spesso svuotati di un significato ma se riconvertiti ad un uso temporaneo di permanenza assistita degli homeless potrebbero reinterpretare il concetto di vecchio dormitorio o di vecchia mensa.
Sovrapporre questi ‘luoghi – risorsa’ alle strutture che capillarmente agiscono sulla città prestando servizi di quotidiana natura, potrebbe allargare la rete dell’ assistenza e mettere nella condizione più associazioni di collaborare rispetto alla fornitura di brande, funghi riscaldanti, distribuzione di bevande calde. Significherebbe dare qualcosa in più all’abitare in strada, significherebbe allestire temporaneamente degli spazi che all’oggi sono liberi e vuoti.
Ma anche i servizi mobili potrebbero essere potenziati, basti pensare alla linea 90.91 che conduce ogni giorno, inconsapevolmente, centinaia di senza dimora attorno al centro nevralgico della città compiendo un giro quasi perfetto. Sfruttarne le condizioni significa re-interpretare uno dei suoi giri notturni attrezzando un autobus all’ascolto, alla possibilità di effettuare visite mediche, consulenze legali e distribuzione di pasti caldi.
Molti infine sono i materiali di recupero che possono essere utilizzati per fare da corollario, basti pensare alle coperte, brande accappatoi spesso dimessi dagli alberghi che rinnovano il loro corredo, ai vestiti portati nelle campane gialle spesso inaccessibili perché chiusi, al cibo che viene eliminato dai supermercati il giorno prima della scadenza. Ogni scenario può essere possibile, la varietà di ciò che si può pensare, permette che ogni azione possa funzionare imprescindibilmente da un’altra cercando di risolvere, purtroppo solo in parte, il problema.
Le strategie che si possono adottare, si attivano nel momento in cui la rete di assistenza funziona nella tessitura di un progetto graduale e funzionale all’emergenza che evidentemente non è solo invernale, ma la rete di assistenza deve funzionare anche in un accordo di rete molto intenso e regolarizzato. Sarebbe quindi interessante poter lavorare sulla riorganizzazione degli spazi nella città come luoghi con un vestito nuovo, sarebbe bello pensarli anche da architetti lavorando strettamente con le associazioni ma soprattutto con gli abitanti degli stessi spazi. Sarebbe utile poi costruire per l’ homeless una guida della ‘città debole’ non inventata ma reale. Una guida che non serva solo per sapere dove ‘mangiare dormire o lavarsi’ ma che sia un oggetto pratico per segnalare dei ‘luoghi’ in più, reinventati dove poter stare, anche temporaneamente, in modo dignitoso.
La città debole è un progetto mai realizzato pensato senza la pretesa di risolvere in modo totalizzante il problema dello spazio per l’homelessness ma è un’ipotesi progettuale che cerca di essere un punto di partenza, una riflessione, a partire dalla composizione delle strutture dell’ accoglienza e assistenza di cui la città è dotata e dai modi di abitare della popolazione dell’ homelessness. La città debole è anche il tentativo di porre in evidenza delle questioni interessanti di cui un architetto si può occupare e rispetto a cui si può interrogare senza la pretesa di saper fare tutto, ma solamente il proprio mestiere.
L’ albergo dei poveri di Napoli non è una soluzione ma racconta come uno spazio può essere attentamente studiato e questo può essere messo a confronto con le strutture ‘standard’ reali e attive degli spazi dell’accoglienza, progettate in funzione unicamente del servizio che devono compiere al di là di questioni estetiche e che spesso sono spazi tristi, poco interessanti, brutti. Bisogna stare quindi attenti quando l’estetica e l’ingegno si riscopre nella cura posta dall’ homeless nel costruire con attenzione i propri ambiti e spazi informali e improvvisati, perché noi architetti, da questo, abbiamo molto da imparare.
“Saggio di Federica Verona, pubblicato per Carocci Editore, “Homelessness e dialogo interdisciplinare” analisi a confronto tra modelli diversi. A cura di Raffaele Gnocchi”.
[1] La lesena, è un elemento di un ordine architettonico addossato a parete, consistente in un fusto, a pianta rettangolare, appena sporgente dalla parete stessa, con i relativi capitello e base.
[2] Sam Tsemberis a faculty member of the Department of Psychiatry of the New York University School of Medicine
[3] http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/esteri/calabresi-america/vivere-auto/vivere-auto.html da La Repubblica: La middle class ha perso la casa, ecco i nuovi poveri d’america. Di Mario Calabresi
[4] Atelier Van Lieshout, gruppo multidisciplinare fondato nel 1995 da Joep van Lieshout, opera a livello internazionale nel campo dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Il loro intento è quello di oltrepassare le barriere che hanno caratterizzato e spesso forzato le arti visive. Contrari al mito creatore ispirato, i membri lavorano come un team creativo attraverso continue collaborazioni interdisciplinari tra l’architettura, la pittura, la scultura e il design.
[5] La città debole, homeless e spazio urbano, di Federica Verona tesi di laurea 2004, Facoltà di architettura Iuav Venezia. Relatore: Bernardo Secchi, correlatore Giovanni La Varra.
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