Milano è la capitale di musica e teatri ma trovi un progetto per tutti

Milano è la prima città in Italia per spesa culturale: 167 milioni spesi in un anno per l’acquisto di libri, 102 milioni per i concerti. La seconda voce, con 104 milioni di euro, è il calcio. Qui si concentra un quarto della spesa nazionale per assistere a spettacoli di teatro lirico, il 15% di quella per il balletto, il 10,6% del totale italiano per i biglietti del teatro di prosa, il 10% per l’acquisto di libri, il 5,3% gli ingressi al cinema.

Dalla lettura agli spettacoli, la spesa di Milano pesa per circa il 12% sul totale nazionale; un dato significativo se si considera che la città raccoglie il 2,3% della popolazione italiana. Ma questa città, lo sappiamo, è ricca di istituzioni storiche a partecipazione pubblica, a cui si unisce la grande rete di musei, librerie, teatri e spazi cultuali.

Poi ci sono le grandi fondazioni, capaci di ricchissime programmazioni a livello cinematografico, culturale e artistico, alcune delle quali hanno scelto zone periferiche in cui innestare le proprie sedi e attività.

A queste si aggiungono una serie di attori che operano nella filiera culturale diffusa: sono spazi con più funzioni a livello sociale e culturale insieme (i cosiddetti spazi ibridi), spazi indipendenti, associazioni, luoghi della cultura underground, spazi di produzione musicale, artistica, teatrale, di innovazione culturale (ben raccontati dal lavoro di ricerca Map Mi, Centro Ask Bocconi/Città quartieri rete cultura Milano/Che_Fare).

Si tratta di realtà che spesso della periferia, dai margini, attivano le loro rivoluzioni. La loro resistenza spesso dipende dalla costante e competitizione nel fare domanda e poi nel rendicontare le spese per i bandi.

Tutto bene, allora? No. A placare gli entusiasmi è il rapporto di Save the Children sulla povertà educativa in Italia, che mostra come il 67,6% dei minori di 17 anni, più di due su tre, non è mai andato a teatro, il 62,8% non ha mai visitato un sito archeologico e il 49,9% non è mai entrato in un museo e solo il 13,5% dei bambini e delle bambine sotto i tre anni ha frequentato un asilo nido.

E sempre in Lombardia il tasso di abbandono scolastico dal 2021, subito dopo il trauma sociale provocato dal Covid, si è attestato al 11,3%. Un dato inferiore alla media nazionale ma comunque sopra di 2,3 punti dall’obiettivo europeo del 9% entro il 2030. Nei test Invalsi 2020/21, il 36,8% degli studenti lombardi di terza media si è attestato sui livelli di competenza 1 e 2 in italiano, considerati non adeguati, a fronte di una media nazionale del 39% circa. Si tratta di valori direttamente proporzionali alle condizioni di emarginazione e vulnerabilità sociale, conseguenza di una Milano sempre più in espansione.

È certo immaginabile infatti che, dove i valori immobiliari medi sono più alti le diseguaglianze economiche diminuiscano, aumentando nelle zone socialmente ed economicamente più deprivate. «Lo sviluppo, però, non è veramente sviluppo se non matura e valorizza pienamente ogni singola creatura», diceva Danilo Dolci, che in fondo ci invita ad interrogarci su come questo grande patrimonio di produzione culturale possa e debba diventare anche un grande motore sociale accessibile e capace di parlare a tutti.

Certo, ci sono le iniziative promosse anche nelle aree più isolate della città: eventi, festival, spettacoli soprattutto estivi; come sono una realtà i 49 centri di formazione professionale del Comune che alternano occasioni di apprendimento in termini di arte, teatro, musica, liuteria, nel sostegno a fasce disagiate per l’inserimento lavorativo.

Ma rimane vero che chi può permettersi la cultura, a Milano, appartiene ad un gruppo sociale privilegiato che può acquistare i biglietti dei cinema, dei teatri, dei concerti, sostenendo, giustamente, il lavoro di chi, spesso con fatica, fa andare avanti queste macchine complesse.

Esiste anche una galassia però, che se la cultura la vuole, se la deve costruire da sola, dal basso, a costo zero. Sono ragazze e ragazzi, italiani e stranieri, o interi gruppi di famiglie che danzano nello spazio pubblico e di risulta, fanno musica, radio, video e fotografia o usano il corpo come mezzo performativo e hanno passioni che nascono da tradizioni lontane.

E senza immaginare di costruire nuove strutture, che oggi più che mai rischierebbero di rendere esotici certi quartieri invece di proteggerli, servirebbe dotare di piccole migliorie tecniche e burocratiche gli spazi urbani dove avvengono questi piccoli miracoli aggregativi dal basso.

E poi servirebbe ascoltare, mappare e osservare i talenti ma anche i desideri di quegli adolescenti, quelle famiglie e quegli anziani che abitano le case popolari, i quartieri più poveri e difficili, nel rispetto della loro di cultura, a volte fatta anche solo di Tik Tok e programmi Tv.

Servirebbe farlo per costruire risposte anche adatte alle loro esigenze. Vorrebbe dire creare un meccanismo virtuoso che sappia portare in quei luoghi parte di ciò che avviene in città ma che, soprattutto, renda i più poveri i primi protagonisti di un progetto culturale, dando loro il coraggio di chiedere giusti finanziamenti pubblici, coinvolgendoli in uno scambio attivo con l’azione umana di artisti, musicisti, attori, poeti, studiosi e visionari.

Una grande opera maieutica per riportare la cultura alla strada e costruire altri e nuovi pubblici per l’offerta culturale. Pubblici che per ora non ci sono perché nessuna politica li può più vedere da quel posto riservato nel palchetto lassù.

Lascia un commento