Milano non deve temere la propria fragilità

A Milano è arrivata la tempesta. La città che non si ferma, tutto d’un colpo, si è fermata. Questa grande macchina — bella e sghemba, veloce e sfinita, un po’ diva e un po’ fabbrica — dopo anni in corsa a velocità siderale, ha oggi un’occasione rara: quella di rallentare, stare in silenzio e interrogarsi su ciò che è stato, cosa non ha funzionato. Invece di rimuovere, rilanciando. Partendo dall’errore per ricostruirsi, finalmente, a misura di chiunque la abiti. A misura di diversità.

Negli ultimi mesi la città è stata attraversata da una scossa silenziosa e profonda. Le inchieste giudiziarie — che toccano alcuni dei luoghi e dei poteri simbolici della trasformazione urbana e sociale degli ultimi anni — hanno trasformato in cratere la crepa che da anni, un po’ alla volta, si allargava nel racconto di città vincente. Senza entrare nel merito delle vicende, per le quali è doveroso attendere gli esiti dei procedimenti giudiziari con pieno esercizio di garantismo, resta però netta la sensazione di una discontinuità definitiva rispetto a un passato recente che sembrava trionfale. Sono questi i momenti migliori per ripartire dalle domande fondamentali: su quali dinamiche si è fondata Milano negli ultimi vent’anni? Cosa succede quando la retorica dell’efficienza, della crescita costante e dell’attrattività si scontra con le fragilità strutturali, con quelle umane e con le zone d’ombra mai del tutto chiarite? Più che un’accusa, però, serve oggi un cambio di sguardo e al di là di “chi ha fatto cosa”, oggi serve chiedersi: questa città cosa sta diventando?

È Federico Fubini ad evidenziare, sulle pagine del Corriere della Sera, come a Milano si concentri il 40 per cento delle vendite di immobili sopra il milione di euro. Tra il 2021 e il 2024, nelle zone più pregiate, i prezzi sono cresciuti fino al +57 per cento, toccando i 27.000 €/mq (e 39.000 nel Quadrilatero). Questo boom è alimentato anche dal regime fiscale per i “neo-residenti”: una flat tax da 100 mila euro (oggi 200 mila) per chi ha redditi all’estero, introdotta a fine 2016 dai governi di centrosinistra guidati da Renzi e Gentiloni. Dal 2018 al 2023, la città ha attratto almeno 4.500 super-ricchi, due terzi dei quali si sono stabiliti a Milano, spesso comprando casa. Questo meccanismo ha avuto un impatto sul mercato del lusso e sui prezzi medi, saliti del 13 per cento dal 2015. Intanto, 128 mila rientrati con sgravi fiscali (esenzione del 70-50 per cento sull’imponibile) investono nel mattone. Il risultato: un mercato drogato nel quale i super-ricchi che risparmiano sulle tasse comprano casa, mentre il ceto medio paga sempre di più — e spesso viene escluso.

Negli ultimi cinque anni, infatti, i canoni d’affitto sono esplosi: +22 per cento tra il 2019 e il 2024, con punte del +38 per cento in quartieri periferici. Il canone medio richiesto per una casa di 70 m² ha toccato quota 1.625 €/mese — contro i 1.330 € di cinque anni fa. E il prezzo medio al mq ha raggiunto i 5.532 €/m² nel giugno 2025, segnando un +1,4  per cento annuo. Secondo la Caritas Ambrosiana, nel 2023 le richieste di aiuto sono aumentate del +25  per cento, e la povertà cresce anche tra chi lavora, evidenziando una diffusione del fenomeno dei “working poor”. Insegnanti, cameriere e camerieri, lavoratori a partita iva negli studi professionali, tranvieri. I loro stipendi, invariati da tempo, si aggirano in media intorno ai 1300 euro al mese.

Nel frattempo, la demografia di Milano dà segnali contraddittori. Perché, se è vero che dopo l’emorragia degli anni del Covid, in cui la città aveva perso circa 50 mila residenti in un biennio, altrettanto vero è che negli ultimi anni la curva dei residenti ha ricominciato a salire stabilizzandosi attorno al milione e quattrocentomila. Tuttavia, sempre nell’ultimo biennio, il saldo tra i nuovi iscritti all’anagrafe e quanti lasciano la città sembra nuovamente negativo, a segnalare, una nuova onda di allontanamento da monitorare.

Quel che sembra evidente, guardando i costi della vita dopo le ondate di inflazione degli ultimi anni, è che la città espelle i più deboli, mentre cresce la propensione degli investitori (anche privati) a trasformare gli immobili in fonte di reddito; secondo Crif/Nomisma, il 63 per cento dei locatori li percepisce come investimento, in molti casi a spese di chi cerca una casa per viverci. Del resto, a partire da Expo alle Olimpiadi in arrivo, tutto ha creato una narrazione di successo. E non si può negare che la città sia diventata anche molto più bella.

Ma, allo stesso tempo, si è alimentata quella dinamica performativa che produce valore per pochi rischiando di soddisfare interessi più privati che pubblici. Milano però non è solo vittima di una “crisi urbana”, soffre anche di un problema di rappresentanza. L’elettorato del centro storico – con redditi più alti e capitali culturali – vota molto di più della media cittadina: i dati sulle elezioni comunali 2021 parlano chiaro: solo il 47,7  per cento di affluenza, ma con punte ben superiori nei Municipi centrali. Di contro, le periferie mostrano un distacco crescente: bassissima affluenza e minore interesse. L’apatia diventa evidente: chi sta fuori dal centro percepisce la politica come distante, estranea. Risultato: le politiche urbane emergono sempre più orientate a soddisfare un elettorato centrale, benestante, mentre le periferie restano marginali. In una città vulnerabile, questa è una frattura politica grave quanto quella sociale o immobiliare. Perché il rischio è che il futuro della città, lo decidano sempre e solo i salotti.

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